Ci si può domandare, a questo punto, come sia potuto accadere che, dopo le aperture in senso liberale realizzate nel decennio ’60, dopo l’incremento della partecipazione politica e la messa in discussione dell’autoritarismo tecnocratico e militare attuata in quel periodo, l’Occidente sia ora di fronte a un tale cambiamento.
Una congrua risposta a questa domanda implicherebbe che fossero presi in considerazione i numerosi fattori, interni ed esterni, che hanno interferito sul cammino dell’Occidente nel recente periodo, togliendogli la baldanza libertaria da cui sembrava animato. Ma se ci si vuole limitare ad una eziologia riferibile alla stessa natura della fase politico-culturale che ha preceduto la svolta invclutiva, si deve osservare che i movimenti degli anni ’60 non hanno avuto né la chiarezza ideologica né la forza d’urto necessarie per intaccare le istituzioni portanti, quelle cioè che fondano l’assetto generale di una società. Benché essi abbiano compiuto un apprezzabile lavoro di destrutturazione, non sono stati in grado di estenderlo al di là di alcune istituzioni sostanzialmente marginali rispetto al nucleo centrale del potere. Hanno intaccato – a vantaggio dell’autodeterminazione individuale – la famiglia, la scuola, l’università, togliendo a queste entità parte dell’impronta repressiva che precedentemente avevano; hanno liberalizzato l’amore, legittimato il privato, garantito nuovi spazi alla circolazione delle idee; valorizzato la marginalità rispetto alla centralità, e messo in evidenza la negatività del potere sul piano etico. Ma questo insieme di risultati non è valso a modificare la struttura dell’impresa e l’assetto politico, i due assi portanti con cui ogni sviluppo civile deve fare i conti. Questi assi sono passati indenni nella bufera degli anni ’60 ed ora si può constatare che hanno rinforzato il proprio impianto autoritario con gravi conseguenze generali.
Minacciate ma non colpite direttamente, tali istituzioni sono riuscite ad attuare le loro vendette negli anni ’70. Certe forme che esse avevano assunto in Occidente ben prima della contestazione realizzavano implicite negazioni del plu-ralismo e ne riducevano grandemente l’attuabilità. La tecnocrazia, i monopoli e il sistema sempre più rigidamente strut-turato dei partiti erano di per sé rilevanti smentite dei principi di questo e ostacoli gravissimi alla sua estrinsecazione concreta. Quelle istituzioni in realtà configuravano un modello antidemocratico nel bel mezzo della democrazia e nella sostanza sabotavano quest’ultima. La piega corporativa assunta in seguito su larga scala dalla società occidentale appare perfettamente in linea con tale sabotaggio occulto ma micidiale. Forza contro forza, compagine di potere contro compagine di potere, la società è andata sempre più accentuando – attraverso un’organizzazione puntigliosa dei suoi corpi interni – caratteri che nulla avevano di democratico, già evidenti peraltro nelle concentrazioni apparse prima che il fenomeno corporativo assumesse un’estensione generale.
Il fallimento degli scopi principali della contestazione -nonostante il successo ottenuto in campi secondari – è comprensibile se si considera, oltre alla debolezza delle forze sociali su cui essa si fondava, il tipo di elaborazione teorica che la sorreggeva. Il primo elemento è troppo evidente per aver bisogno di molti commenti: le forze implicate nei « movimenti » non solo erano numericamente esigue rispetto alla massa della popolazione, ma operavano in settori obiettivamente periferici, o resi tali dalla natura stessa della società industriale avanzata. Gli studenti, le donne e alcune altre componenti attive dei movimenti, in genere non agivano a contatto diretto con i grandi processi produttivi e politici né, tanto meno, nei corrispondenti apparati. La loro protesta, di conseguenza, non poteva avere una specifica incidenza su tali processi. Anche quando – come in Francia – i movimenti giunsero a minacciare l’assetto politico, tale minaccia fu effimera e troppo debole per arrivare ai nuclei sostanziali del potere. Essa comunque non potè coinvolgere la « struttura » vera e propria.
Per quanto riguarda il secondo elemento, ora che si possono vedere le cose con sufficiente distacco, non è difficile constatare che la pars destruens della critica teorica è stata di gran lunga più elaborata della pars construens. Nessun progetto di mutamento applicabile alle istituzioni portanti fu invero delineato dal pensiero critico. I teorici indugiarono al livello dei grandi presupposti, mettendo in luce il carattere alienante e repressivo della società vigente: ma al di là della denuncia di tale repressività (presentata da Marcuse come un fatto pressoché irrimediabile) essi non seppero spingersi. La formazione più filosofica che sociologica, economica e politologica dei più importanti intrepreti del pensiero critico, e inoltre la scarsa volontà di abbandonare una certa metodologia deduttiva che pretendeva di ricavare tutto da alcuni assiomi, hanno favorito l’inclinazione alla denuncia senza alternative pratiche e senza operatività concreta.
A ciò si aggiunga che – mettendo in risalto le potenzialità repressive della cultura occidentale – il pensiero critico ha trascurato di sottolineare e di valorizzare quelle libertarie. L’atteggiamento di Adorno e Horkheimer nei riguardi del-l’illuminismo è in proposito tipico. La oggettiva svalutazione di uno dei più grandi momenti culturali dell’Occidente da essi decretata in Dialektik der Aufklarung (1947) – benché presentata come tentativo di salvarne il vero spirito – ha costituito, per molti versi, un atto suicida, una professione di sfiducia nella ragione occidentale non accompagnata da alcuna alternativa concreta. Non si può non convenire a questo proposito con Jacques Ellul, quando sottolinea che « coloro che sono stati i portatori o i ricercatori dei valori di una civiltà, coloro che vogliono il rinnovamento di una cultura, hanno troppo facilmente respinto, disprezzato il retaggio positivo del mondo occidentale. I nostri intellettuali, travolti da una sorta di delirio di autodistruzione, hanno perduto il senso dell’avventura occidentale, e degli atleti bardati di tutto punto: hanno creduto di potersene impadronire, mentre non facevano che assestargli il colpo di grazia »
GIAN PAOLO PRANDSTRALLER
Nato a Castello di Godego (TV) il 26/03/1926, libero docente in Sociologia Generale nel 1969, Professore incaricato di Sociologia presso l’Università di Padova dal 1969 al 1975, Professore straordinario di Sociologia nell’Università di Lecce nel 1976, Professore Ordinario di Sociologia nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna nel 1977.