“Dobbiamo cambiare l’America da essere una cultura dei bisogni, ad essere una cultura dei desideri. Bisogna addestrare la gente a volere cose nuove, ancor prima che le cose vecchie siano consumate del tutto. Dobbiamo formare una nuova mentalità in America. I desideri dell’uomo devono mettere in ombra le sue necessità”.
Prendo questa citazione dall’ultimo, illuminante saggio di Enzo Pennetta, “L’Ultimo Uomo – Malthus, Darwin, Huxley e l’invenzione dell’antropologia capitalista” (Circolo Proudhon, 206 pagine, 16 euro). Naturalista per formazione, Pennetta è diventato un notevole storico del pensiero scientifico; del suo cascame, ossia lo scientismo; e su questa via, ha esplorato i “cambi di paradigma” culturali e le centrali che li creano e diffondono nel mondo moderno: tipicamente il Darwinismo, voluto dalle centrali britanniche come “genesi laica”, ossia un mito funzionale al potere, e “fons juris” che non dovesse nulla a un Dio, né a un obbligo di adeguarsi qualche idea del bene o del male.
La citazione di Paul Mazur mi ha risonato dentro in modo speciale perché io, per l’età, ho vissuto il “cambio di paradigma” di cui parla: nel primo quindicennio della mia vita, e anche oltre (diciamo fino al 1960), nella Milano industriale oggi scomparsa, ho visto le ultime propaggini della ‘cultura dei bisogni’.

Era la cultura che è facile deridere come quella delle scarpe risuolate, dei cappotti rivoltati, dei pantaloncini che passavano dal fratello maggiore al minore, e non comprati ma cuciti in casa. Ma nella derisione va perduta la forza spirituale, la potenza educatrice che tale paradigma dava alla società. Una economia pensata per soddisfare i bisogni non poteva essere ipertrofica, non aveva la voce in capitolo totalizzante e condizionante che ha oggi. Ricordo benissimo che le famiglie – dove non erano ancora in uso gli acquisti a rate – non solo risparmiavano per anni per le grandi spese importanti (mobili, i primi elettrodomestici, la Vespa) ma insegnavano ai figli a dominare i desideri: la paghetta settimanale non essendo affatto un diritto acquisito, noi giovanissimi sperimentavamo la ‘povertà’ : una lieta povertà al sicuro dalla fame (ci pensavano i genitori) ma in assenza di denaro, salvo quelle monetine da dieci lire per acquisti di liquirizia.
L’ideale era aver sempre meno bisogni
Ma c’è anche di più. Nella cultura dei bisogni, non solo non veniva incoraggiata l’espansione dei desideri; veniva additato come ideale la “riduzione dei bisogni” stessi. Crescere, diventare adulto, significava aver imparato a ridurre i propri bisogni: il padre di famiglia per esempio, o la mamma, rinunciare a qualcosa loro – del poco – per la famiglia e gli studi dei figli. Si era conquistata “libertà”: la libertà dal bisogno veniva intesa così, l’esatto contrario di quella di adesso.
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