“Giorgio Bo, ministro delle partecipazioni statali, ebbe un ruolo di rilievo nel determinare, agli inizi degli anni Sessanta, una svolta nel sistema delle relazioni industriali in Italia. La costituzione (1960) delle associazioni sindacali degli imprenditori pubblici (l’Intersind per le aziende IRI e l’ASAP per le aziende ENI) rispondeva all’esigenza, apertamente teorizzata, di associare le forze sindacali allo sforzo di attuazione di una politica di programmazione economica per uno sviluppo equilibrato del paese. A questo scopo il B., l’8 giugno 1962, in occasione dell’apertura delle trattative per il rinnovo dei contratto di lavoro dei metalmeccanici, raccomandò in una circolare all’Intersind e all’ASAP di inserire nei nuovi contratti norme di riconoscimento dei diritti sindacali in azienda (molte delle quali poi sancite dalla legge n. 300 del 1970 detta Statuto dei lavoratori); negli stessi giorni il presidente dell’IRI, G. Petrilli, intervenendo all’assemblea dell’Intersind, ricordava che compito essenziale delle associazioni degli imprenditori pubblici – più che la difesa degli interessi economici delle aziende rappresentate – era quello di ottenere il consenso delle masse lavoratrici intorno agli obiettivi di politica economica e sociale del governo. Ne derivò la dissociazione di Intersind e ASAP dalla Confindustria nella conduzione delle trattative, la firma di un separato protocollo di intesa con i sindacati dei lavoratori (5 luglio 1962) che avviava la riforma del sistema di contrattazione collettiva, l’accettazione della contrattazione articolata a livello di azienda e la sigla di un contratto per i metalmeccanici delle aziende a partecipazione statale distinto da quello valevole per il settore privato (20 nov. 1962).
“Dopo la fase della ristrutturazione organizzativa e funzionale (tra l’altro furono creati tre nuovi enti di gestione: l’EGAM, per le aziende minerarie, quello del cinema e quello delle aziende termali), si aprì per le imprese pubbliche un nuovo ciclo. Agli interventi nei settori strategici (siderurgia, petrolchimica, ecc.) seguirono quelli nelle infrastrutture, nel settore manifatturiero e nei servizi. L’IRI restava la maggiore holding, ma l’ENI, per la personalità del suo presidente e per il suo dinamismo imprenditoriale, era divenuta la punta di diamante delle partecipazioni statali. Il Bo, che con Boldrini e La Pira aveva contribuito a delineare i contenuti della politica dell’ENI verso i paesi del Terzo Mondo (assistenza tecnica, collaborazione nello sfruttamento delle risorse, sostegno allo sviluppo economico e sociale), appoggiò anche l’apertura di Mattei verso i paesi dell’Europa orientale, autorizzando i contratti per l’importazione del greggio dall’Unione Sovietica, e non si oppose all’avvio della realizzazione dell’oleodotto Genova-Ingolstadt e all’ingresso del gruppo petrolifero nel settore delle fibre tessili mediante l’acquisizione della Lanerossi.
“Tali iniziative riattizzarono la polemica con le compagnie petrolifere internazionali e con la destra politica ed economica. Gli attacchi ebbero come bersaglio principale Mattei, ma coinvolsero anche Giorgio Bo presentato, per l’avallo dato, come “servitore” e “vassallo” del presidente dell’ENI. In realtà era difficile per chiunque contrastare un uomo potente come Mattei e il Bo, in effetti, sembrava “pago, tutto sommato (come taluni sostenevano) di adempiere un dovere di conoscenza e di informazione, restringendosi a registrare le scelte e le decisioni prese dagli enti e dalle aziende controllate” (Il nuovo ciclo, p. 24). Certamente il suo ruolo più evidente fu quello di chi definiva la filosofia dell’intervento dello Stato nell’economia, spiegava e giustificava le iniziative delle imprese pubbliche e indicava gli obiettivi strategici da raggiungere (assorbimento della disoccupazione, superamento della arretratezza del Mezzogiorno, rottura delle posizioni monopolistiche, leadership nello sviluppo economico nazionale). […]”
Gianluigi Leone (ARS Lazio)
estratto da http://www.appelloalpopolo.it/?p=12489
Negli anni Sessanta, priva di materie prime e senza tecnologie avanzate, l’Italia riuscì a diventare la quarta potenza industriale del mondo superando persino l’Inghilterra (fautrice della rivoluzione industriale).
In un sistema economico di tipo misto, “l’Italia del miracolo”, veniva sostenuta da una serie di aziende pubbliche, che aiutavano quelle private fornendo semilavorati a basso costo come l’acciaio, i servizi, la telefonia, l’energia, il gas e il petrolio dell’Eni. La vitalità produttiva italiana si traduceva così nei settori agricoli, manifatturieri, alimentari, metallurgici, meccanici, tessili, chimici, tecnologici.
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=49705
E fu così che negli anni sessanta i laburisti inglesi e le socialdemocrazie nordiche cominciarono a guardare all’IRI come ad un efficace modello di intervento statale alternativo alla nazionalizzazione, capace di mettere in atto forme di cooperazione tra capitale pubblico e privato, e vi furono missioni in Italia per approfondirne lo studio. La formula IRI appariva cioè come un modello vincente, da imitare.
La deformazione del modello concepito da Beneduce iniziò negli anni settanta, quando l’Iri fu caricato di funzioni ed oneri impropri, quali la lotta alla disoccupazione e lo sviluppo del Mezzogiorno, prescindendo dall’equilibrio economico dei suoi conti. Grandi investimenti dettati da ragioni politiche e finanziati dal sistema bancario, certo della garanzia dello Stato, ne ingigantirono gli oneri finanziari, portando i conti in rosso. Lo Stato fu chiamato a ricapitalizzare, e il rapporto tra politica e manager, che Beneduce si era preoccupato di evitare, si fece via via sempre più intenso. Quando poi i vincoli di Maastricht e le decisioni di Bruxelles in tema di concorrenza vietarono gli aiuti di Stato alle imprese pubbliche, cioè in pratica la ricapitalizzazione delle società pubbliche in perdita, il destino dell’IRI, impiombato dai debiti, di fatto venne segnato. La mitologia delle privatizzazioni, parte essenziale del nuovo “pensiero unico” dominante, fece il resto. Invece di correggere le distorsioni della politica e la corruzione della partitocrazia, si è liquidato l’Iri, con due giustificazioni: che la gestione dei privati sarebbe stata più efficace, e che gli incassi delle vendite avrebbero ridotto il debito pubblico. In realtà il debito è aumentato costantemente, e la gestione privata si è rivelata, non raramente, più disastrosa di quella pubblica. Emblematici i casi di Telecom, delle acciaierie, di Alitalia, delle aziende agroalimentari, di qualche grande banca.
http://www.lafinanzasulweb.it/2016/beneduce-e-mussoliniquella-strana-coppia-da-cui-nacque-liri/