Come mostrò Francesco Farina ne L’accumulazione in Italia 1959-1972 (De Donato, 1976), un «aspetto rilevante dell’accumulazione capitalistica in Italia [nel secondo dopoguerra] è la mancanza di un processo continuo ed autonomo di innovazioni tecnologiche, dal momento che la maggior parte dei beni capitali viene importata o imitata dall’estero. Il progresso tecnico è perciò introdotto in prevalenza attraverso riorganizzazioni produttive dirette ad aumentare la creazione di plusvalore mediante la pura intensificazione del lavoro, e solo limitatamente si presenta incorporato in nuovi impianti tecnologicamente più avanzati, in grado di accrescere la produttività sociale del lavoro» (p. 12). Questo “modello” di accumulazione estensiva (espansione territoriale della base tecnica data) e non intensiva (introduzione di tecnologia labour saving), che aveva la sua ragion d’essere nella struttura capitalistica del Paese e nella sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro postbellica, e che entrerà in crisi già nella seconda metà degli anni Sessanta, realizzò quella relativa forza contrattuale della forza-lavoro che il capitale italiano cercherà di intaccare in tutti i modi all’indomani dell’autunno caldo del ’69.
Fonte: http://sebastianoisaia.wordpress.com/2014/06/12/sul-concetto-di-controrivoluzione-neoliberista/