Se chiedete ad un giovane cos’è il progresso, probabilmente vi risponderà: Internet, il cellulare, l’MP3.
Sciocchezze!
Se avete visitato castelli o case patrizie, avrete notato che l’unico modo di riscaldarsi era il camino (tornato di moda per motivi ornamentali). Se risalite con la memoria all’immediato dopoguerra, trovate le stufe a legna: quella della cucina che serviva per riscaldare l’acqua e cuocere il cibo e qualcuna nelle altre stanze. Per la difficoltà di alimentazione e per esigenze di risparmio, quelle delle camere da letto si accendevano solo in caso di malattia e la temperatura difficilmente superava i 10 gradi d’inverno; si suppliva con “il prete” (chi non sa cosa sia, visiti qualche museo di civiltà contadina e lo scoprirà).
La legna, ora tornata di moda, ha il difetto che deve essere stagionata, e stivata in luogo asciutto, trasportata ed accesa, la stufa va alimentata di continuo e non spande un calore uniforme; inoltre con impianti non a regola d’arte, la combustione avviene in mancanza di ossigeno e si forma ossido di carbonio, per cui di frequente le cronache riportavano casi di intere famiglie sterminate durante il sonno.
Il carbone aveva una più alta resa energetica, ma sporcava talmente da richiedere un locale caldaie e personale apposito (fuochisti).
Negli anni ’60 una alternativa largamente praticata erano le stufe alimentate a cherosene (chi c’era ricorda i bidoni di plastica gialla e i furgoncini “ape” con cui venivano portati a domicilio), ma, contemporaneamente, cominciavano a essere installati nelle nuove case i primi impianti a riscaldamento centralizzato con caldaie e bruciatori, inizialmente a nafta.
Quest’ultima però necessitava di serbatoi di stivaggio e di frequenti pulizie agli ugelli dei bruciatori, oltre ad essere inquinante; la soluzione ottimale arrivò con la metanizzazione.
Questa richiese un impegno dei comuni (socializzazione delle perdite) e poi nacquero le compagnie private o semi-pubbliche (privatizzazione dei profitti), il che ci riporta più o meno alla situazione odierna in cui, senza farci più caso, abbiamo acqua calda, servizi igienici in casa e ambienti tutti uniformemente riscaldati.
Sciocchezze!
Se avete visitato castelli o case patrizie, avrete notato che l’unico modo di riscaldarsi era il camino (tornato di moda per motivi ornamentali). Se risalite con la memoria all’immediato dopoguerra, trovate le stufe a legna: quella della cucina che serviva per riscaldare l’acqua e cuocere il cibo e qualcuna nelle altre stanze. Per la difficoltà di alimentazione e per esigenze di risparmio, quelle delle camere da letto si accendevano solo in caso di malattia e la temperatura difficilmente superava i 10 gradi d’inverno; si suppliva con “il prete” (chi non sa cosa sia, visiti qualche museo di civiltà contadina e lo scoprirà).
La legna, ora tornata di moda, ha il difetto che deve essere stagionata, e stivata in luogo asciutto, trasportata ed accesa, la stufa va alimentata di continuo e non spande un calore uniforme; inoltre con impianti non a regola d’arte, la combustione avviene in mancanza di ossigeno e si forma ossido di carbonio, per cui di frequente le cronache riportavano casi di intere famiglie sterminate durante il sonno.
Il carbone aveva una più alta resa energetica, ma sporcava talmente da richiedere un locale caldaie e personale apposito (fuochisti).
Negli anni ’60 una alternativa largamente praticata erano le stufe alimentate a cherosene (chi c’era ricorda i bidoni di plastica gialla e i furgoncini “ape” con cui venivano portati a domicilio), ma, contemporaneamente, cominciavano a essere installati nelle nuove case i primi impianti a riscaldamento centralizzato con caldaie e bruciatori, inizialmente a nafta.
Quest’ultima però necessitava di serbatoi di stivaggio e di frequenti pulizie agli ugelli dei bruciatori, oltre ad essere inquinante; la soluzione ottimale arrivò con la metanizzazione.
Questa richiese un impegno dei comuni (socializzazione delle perdite) e poi nacquero le compagnie private o semi-pubbliche (privatizzazione dei profitti), il che ci riporta più o meno alla situazione odierna in cui, senza farci più caso, abbiamo acqua calda, servizi igienici in casa e ambienti tutti uniformemente riscaldati.
A monte di tutto questo abbiamo però una lunga politica di approvvigionamento energetico non priva di contrasti: in seguito ad accordi di guerra l’ENI avrebbe dovuto essere sciolta, ma Enrico Mattei, nominato liquidatore, riuscì ad evitarlo.
Da allora è stata una continua lotta per impadronirsene o limitarne i poteri, perché è ormai chiaro che chi controlla l’energia, controlla il mondo.
Come ha ricordato di recente Emanuele Bernardi ne Il mais “miracoloso” (Carocci, 2014), grazie al piano Marshall gli Usa introducono in Italia e nelle campagne europee i semi di mais ibrido, che hanno successo per la loro elevata produttività, Quel mais, naturalmente, metterà ai margini e farà scomparire tutte le varietà locali, con i loro caratteri speciali, e soprattutto costringerà gli agricoltori a comprare ogni anno i semi per la semina. Ma il successo del mais ibrido non è merito esclusivo dell’innovazione genetica.
I raccolti più abbondanti si ottengono se si usano abbondantemente i concimi chimici, l’acqua, poi i pesticidi, i diserbanti che le corporation americane produrranno con ritmo crescente trovando nelle campagne europee un mercato sterminato. I semi ibridi sono stati il cavallo di Troia per scalzare un modello secolare di agricoltura. Ma ciò che è rimasto a lungo nascosto è che il miracolo dei semi era dipendente dal crescente uso della concimazione chimica. Lo storico francese Paul Bairoch, ha ricostruito le stupefacenti cifre statistiche che svelano l’arcano della nostra prosperità alimentare. Tra i primi del 900 e il 1985 i rendimenti del grano sono cresciuti nei vari paesi d’Europa di 3 o 4 volte. Ma nello stesso periodo il consumo di fertilizzanti chimici nelle campagne della Germania è aumentato 9 volte, 17 volte in Italia, 20 in Spagna, Quella fertilità non veniva dai suoli d’Europa, ma dai fosfati estratti in Marocco o nelle isole del Pacifico, dall’azoto prodotto industrialmente col petrolio pompato in qualche angolo del mondo. L’intero modello della nostra economia estrattiva, lineare, che consuma una volta per tutte, senza nulla restituire alla terra, è nelle poche cifre fornite dal geologo americano D. A. Pfeiffer nel saggio Eating fossil fuels (2006).
Negli anni in cui si realizza la cosiddetta rivoluzione verde, tra il 1950 e il 1985, la produzione mondiale del grano conosce un incremento che sarebbe sciocco non considerare senza precedenti. Essa aumenta del 250%. Ma il consumo di energia fossile negli stessi anni tocca un picco di aumento del 5.000%. L’incremento di produzione e l’innovazione tecnologica di tutto il settore (concimi, macchine, pompaggio dell’acqua, diserbanti, pesticidi) si sono fondati su un consumo gigantesco di energia, sulla dissipazione di risorse non rigenerabili del suolo e del sottosuolo.
http://www.nuovatlantide.org/expo-la-linearita-dei-predoni/
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